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      ARTE E FOTOGRAFIA

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Il dolore della Madre e degli astanti

L’espressività della Pietà

 

Jacopone da Todi, "Donna de Paradiso", Lauda 70, XIII sec.

Maria: "O figlio, figlio, figlio,
figlio, amoroso giglio!
Figlio, chi dà consiglio
al cor me’ angustïato?”

Maria: “O figlio, figlio, figlio, figlio, giglio amoroso! Figlio, chi dà conforto al mio cuore angosciato?”

 

Nella lauda 70 Jacopone da Todi esprime la pena tutta umana per la morte di un figlio da parte della mamma di Gesù; traspare l'angoscia di una madre che perde il proprio figlio ed è inerme di fronte a ciò che sta accadendo, perché il progetto di Dio è quello e può solo accettarlo. 

I versi di Jacopone possono fungere da didascalia/commento ad opere di altra natura, perché pittoriche e scultoree, che attraverso l'iconografia della Pietà e del Compianto sul Cristo morto hanno “dato voce” nel corso dei secoli al dolore di Maria e di coloro che parteciparono alla Passione.  

A Corato ne abbiamo testimonianza: nell'ex convento dei Frati Minori Osservanti dedicato a San Cataldo, nella sede attuale del municipio, un ignoto pittore del XVI sec. affresca la Pietà. La composizione è essenziale e con stile espressionistico è ritratto il viso del Cristo morto, rigato da rivoli di sangue, sostenuto con tenerezza dalla mano sinistra della Madonna piangente, ma composta. Avvolta dalla tunica blu e dal manto, è rappresentata con un tratto duro e incisivo che non lascia spazio a sfumature nel colore e demarca bene il contorno; il nucleo compositivo si staglia su un cielo freddo e su rocce brulle interrotte da vegetazione in corrispondenza del volto del Cristo. Questo stile può essere confrontato con il grafismo dell'arazzo del Compianto di Cristo morto di Cosmè Tura, pittore ferrarese di fine Quattrocento. Tale confronto potrebbe avere una ragione storica se pensiamo che Corato e Bisceglie divennero ducati dipendenti da Ferrara tra la fine del XV e l’inizio del XVI sec.; è ragionevole pensare quindi che l'ignoto pittore dell'affresco coratino abbia conosciuto la pittura ferrarese.

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L’intensità emozionale nel Compianto su Cristo morto di Niccolò dell’Arca

Rimanendo in ambito emiliano, è possibile ammirare La Pietà di Cristoforo di Benedetto, il Compianto su Cristo morto di Amico Aspertini, anch'esso legato alla pittura ferrarese e il gruppo scultoreo di Niccolò dell'Arca che rappresenta il medesimo tema.

Quest'ultimo scultore ha un particolare legame con la nostra regione. Niccolò, che molto probabilmente nasce in Puglia nel 1435 (è certo che vi abbia trascorso la fanciullezza, anche se dubbi sono i natali)  nei primi documenti è citato come Nicolaus de Apulia. Lavora a Bologna sin dal 1463 e dalle sue opere, secondo lo storico dell'arte Adolfo Venturi, emerge l’influsso gotico-borgognone che può aver conosciuto nella sua permanenza a Napoli quando vi giunse tra il 1450 e il 1460 partendo da Bari. Nella fiorente capitale aragonese il linguaggio rinascimentale, diversamente da Bologna, penetrava a fatica essendo dominante ancora nella prima metà del Quattrocento la componente tardogotica (italiana e d’oltralpe) e quella fiamminga.

Il Compianto di Nicolaus de Apulia (poi detto Niccolò dell'Arca), conservato nella cappella di S. Maria della Vita a Bologna, dunque, secondo Venturi, pur riprendendo la tipologia iconografica della “mise au tombeau” largamente diffusa nel XV sec. in Francia, al contempo se ne discosta: i Piangenti del Compianto bolognese sono sette e non sei e la tomba non è costituita né dal sarcofago, né dal banco marmoreo che simboleggia quello del Sepolcro di Cristo, ma da una lastra coperta da un lenzuolo che si rifà alla “pietra dell’unzione” dove Cristo fu posto prima che fosse sepolto. L'osservatore è colpito dal tono drammatico che è espresso dalla mimica, dalla postura dei sette corpi dei piangenti attorniati a Cristo esanime e dal dispiegarsi dei panneggi che conferiscono plasticità ai corpi.  Maria Maddalena è colta nell’atto di correre verso Cristo e le vesti aderiscono al corpo e si dispiegano al vento; Maria di Cleofa protende le mani in avanti per non vedere; la Vergine stringe al petto le mani serrate; Marta tiene le mani sulle ginocchia e guarda con trepidazione ciò che le sta davanti; Nicodemo guarda lo spettatore attonito e San Giovanni pone una mano sul suo volto.

Di tutt'altro parere rispetto a Venturi è lo storico dell'arte Cesare Gnudi che riconduce l'espressività del gruppo scultoreo di Nicolò alle opere del ferrarese Ercole de Robertis, in particolare alla Maddalena piangente del 1486. 

Ai fedeli di oggi non rimane che riflettere sulla Passione di Cristo anche attraverso le opere degli artisti che hanno sperimentato nei secoli le potenzialità espressive dei loro mezzi.

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